- Fonte:
- Lalla Romano, Una giovinezza inventata, Torino, Einaudi, 1979.
«Quand'ero bambina zia Carlotta mi piaceva perché era elegante [...].
Abitava a due passi dall'università e io salivo da lei quando non avevo lezione e non osavo ancora andare in biblioteca.»
(Lalla Romano, Una giovinezza inventata, p. 28)
«Dopo che ebbi ritrovata [Rita] Casetta, che mi istruí, frequentai la biblioteca di facoltà, dove per lo piú prelevavo testi filosofici; ma anche ne compravo. Non solo le opere di Pastore, o di Kant, o di Croce. [...]
Pastore parlava con ammirazione grave di Bernardino Varisco. Temendo di ripetere l'antica gaffe sul Martinetti, non mi informai se il filosofo era morto o vivo, e dove. Presi in prestito il libro Conosci te stesso. Diventò «il libro»: per le amiche del pensionato. Lo chiamarono cosí perché lo portavo sempre con me, per esempio quando andavamo ad ascoltare Giuseppina [Vergani] che preparava le sonate per la festa di Notre Mère.»
(ivi, p. 129-130).
«La biblioteca di facoltà, un salone lungo e profondo a cui si accedeva da un ampio scalone, prendeva luce dalle alte finestre che davano sul secondo giro del porticato a colonne. La luce era pallida, malinconica. Le dorature dei vecchi libri nelle scaffalature avevano un luccicore discreto.
Le persone non erano interessanti. Un giovane avevo notato, occhialuto, pallido, magro, che aveva un tormentoso tic: attorcigliava attorno alle dita della lunga mano nervosa una ciocca di capelli neri, lisci, che poi ributtava all'indietro; e ricominciava. Mi faceva un po' paura perché mi ricordava Nino.
Io sedevo sempre allo stesso posto, in fondo a uno dei lunghi tavoli; sovente alzavo il capo, guardavo davanti a me la porta a vetri. Cosí lo vidi entrare la prima volta, poi infinite (?) volte. Un giovane, ma non uno studente: un uomo incredibilmente bello.
Un'apparizione insolita, un po' irreale in quel luogo. Posò sul tavolo davanti a sé – con un leggero toc – un bastone (di malacca?) che portava appeso al braccio, posò il cappello, leggero e insieme un po' solenne, non sportivo come usavano tutti; poi si sfilò, sempre senza fretta, i guanti e infine il cappotto, un impermeabile chiaro, ampio, che gli scendeva dalle spalle a cannelloni armoniosi, come un peplo. Si muoveva con gesti misurati, con grazia virile.
Era già strano che io notassi l'eleganza. È vero che avevo detto: – Mi piacciono i filosofi, ma che siano eleganti –; volevo dire non sporchi, non goffi; e poi scherzavo. Del resto quello che mi colpí era qualcosa di diverso, qualcosa di piú nobile della cosiddetta eleganza.
Tornò tutti i giorni e ogni volta si ripeté la cerimonia della svestizione; si rivestiva, alla fine, con un tempo piú rapido. Quando stava per uscire, prima che si voltasse, incontrai qualche volta il suo sguardo: dagli occhi un po' socchiusi veniva un'occhiata breve, fredda, e leggermente maliziosa, ambigua.
M'incantava il suo capo chino sulle pagine. Lo guardavo come avevo sempre guardato le immagini della pittura. I suoi tratti erano insieme forti e dolci, inscritti in una pura forma geometrica: come diceva Venturi del *San Sebastiano di Antonello da Messina. Il riverbero dei fogli dava al suo incarnato un chiarore insieme tenero e severo.
Sui miei fogli cercavo di tracciare le linee della testa, che vedevo un po' di lato. La fronte alta e convessa, le sopracciglia lineari, il naso diritto, sensibile, la bocca dal taglio deciso e carnoso, il mento rotondo. Era giovane, non giovanissimo: due solchi seguivano i lati del naso e della bocca, senza mutarne l'essenziale serenità o indifferenza, proprio come in una statua.
Era un sottile veleno, che sorbivo in quella contemplazione? Io provavo gratitudine per quella visione: piú che mai mi sembrarono orrendi i vari ospiti della biblioteca, per lo piú vecchi, labbra cascanti, testa insaccata, occhi acquosi, curvi a grufolare sui loro testi. Non c'erano giovani, all'infuori di quello del ciuffo; le ragazze noiose, sgraziate.
Da principio non pensai a lui, fuori; fin che non mi accadde di vederlo anche in giro per l'università. Allora mi venne la curiosità di sapere chi fosse.
Di questo inizio ci fu una versione un po' diversa; piú completa e insieme piú reticente, in una lettera per Andrée. [...]
«[...] La stessa sera ero al Regio con un'amica, e notai nei palchi un giovane biondo che baciava con grazia la mano alle signore. Mi resi conto di averlo visto già all'università. Lo rividi infatti ogni giorno, alla biblioteca. Tu conosci la piccola biblioteca raccolta come una chiesa, dalle alte ampie finestre con le tende bianche come amavano i pittori olandesi del seicento.
Lo guardavo lungamente, senza saziarmi mai. Sedevamo di fronte e posso dire che non speravo neppure di essere notata. Mi piaceva moltissimo; conoscevo tutti i piani e le linee del suo volto, dolci e duri a un tempo, mi piaceva il suo volto chino, reso soave dall'ombra, i capelli lisci color dell'oro verde.
Presi l'abitudine di alzare gli occhi ogni volta che la porta si apriva. Ero nei primi tempi arrabbiatissima con me, perché diventavo come tutte le altre. In fondo anche perché dall'eleganza e dai modi lo giudicai di condizione molto elevata ed ero convinta che non ci saremmo mai conosciuti. Del resto mi pare strano anche adesso».
[...]
Da principio ero stata io a provocarlo. [...] Però cominciò lui – o era un caso? – a consultare i cataloghi quando c'ero anch'io nell'angolo sotto la scala di ferro a chiocciola, che portava agli scaffali alti. Non lo guardavo, in quei momenti; mi disturbava il mio batticuore, e poi per dignità, data la vicinanza. Nemmeno lui mi guardava: per civetteria, siccome non era pensabile che fosse per timidezza. [...]
Ormai ero sicura che si era accorto di me. Anche se non mi guardava, notai che caricava leggermente i gesti delle mani parlando con qualcuno.»
(ivi, p. 156-160).
«Accettò, mi parve con perplessità - di venire a posare. [...]
Mentre lavoravo e lui posava – lo vedevo di tre quarti – aveva lo sguardo sottile e un po' diffidente della biblioteca di facoltà.»
(ivi, p. 169)
«Io non penso molto spesso a Pavese e nemmeno questo invito mi ha sollecitata a farlo: mi è costato un certo sforzo. (Sono restia alle occasioni ufficiali). La mia amicizia con Pavese è stata intensa, ma abbastanza breve nel tempo. Eravamo compagni di università, ma – come ho raccontato in un libro – per me era una figura soltanto simbolica, di studioso ispirato, bizzarro, nervosissimo. Lo vedevo ai lunghi tavoli della biblioteca di facoltà: si attorcigliava continuamente il ciuffo dei capelli. Non ci siamo parlati mai; lui era timido e io non ero certo incoraggiante. Del resto lui non guardava le ragazze. Ci siamo conosciuti dopo.»
(Lalla Romano, Un sogno del Nord, Torino, Einaudi, 1989, p. 71. In Una giovinezza inventata il giovane lettore nervoso non viene identificato).
«Provo disagio a considerare queste persone realmente vissute, persone «storiche», e poi diventate personaggi dei miei romanzi. Un disagio che sempre mi si ripresenta quando si confondono i fatti della storia con la poesia. Certi personaggi esistono nella mia fantasia o sono stati da me rivissuti fantasticamente; perciò non è il caso di parlare di riferimento storico. Con alcuni, come con Pavese, l'amicizia è nata in seguito. Sebbene fossimo compagni di università, ci vedevamo per modo di dire, ci ignoravamo piuttosto nella biblioteca di Facoltà.»
(Lalla Romano, L'eterno presente: conversazione con Antonio Ria, Torino, Einaudi, 1998, p. 93).
«In Una giovinezza inventata racconti che fu con gli occhi che tu all'inizio incontrasti Franco Antonicelli, in biblioteca, mentre si toglieva il cappotto...
C'era qualcosa di sacrale nell'ingresso di questo uomo giovane, non giovanissimo, meno giovane di me. Bellissimo, con movimenti studiati. L'ho raccontato. Poi anche lui ha notato me; come si usava allora, mi aveva seguita per strada. È nato un incontro: sono stata subito delusa. Da che cosa? Dal fatto che questo giovane era mondano. Io detesto la mondanità. Era anche molto sensibile, molto colto. Siamo poi rimasti amici.»
(Lalla Romano, L'eterno presente: conversazione con Antonio Ria, Torino, Einaudi, 1998, p. 77).