- Fonte:
- Ezio Raimondi, Le voci dei libri, a cura di Paolo Ferratini, Bologna, Il Mulino, 2012.
«Il libro rappresentava così una sorta di salvatore, un compagno che mi conduceva in un paesaggio diverso. Anche i primi libri di lettura sono stati i libri di scuola: quelli della scuola elementare prima e della scuola superiore dopo. In quegli anni il libro scolastico – il primo e per un certo tempo l'unico disponibile – non era contrapposto al libro di fantasia: era la fantasia ordinata, che permetteva di crescere via via, pezzo dopo pezzo. La prima immagine della biblioteca si lega nella memoria a una bibliotechina di classe: ricordo ancora una lettura azzardata de Il circolo Pickwick di Dickens, di cui capii molto poco; probabilmente gli insegnanti avrebbero dovuto optare per un'introduzione... ma comunque la letteratura ispirava lo stesso, dava le sue impronte, le sue ragioni, i suoi impulsi, i suoi movimenti, le sue aperture. Sta di fatto che il libro scolastico aveva per me questa funzione, anche fantastica, e non lo avvertii mai come alternativo allo sbrigliarsi dell'immaginazione infantile. L'immaginazione infantile si riversava nel libro scolastico e il libro scolastico diventava il luogo del colloquio con un amico maggiore. [...]
Il punto di partenza di questa avventura del senso, l'unico ancoraggio possibile, è la biblioteca, cui sempre si ritorna. Da questo punto di vista si è come il personaggio mitico che ritraeva forza dal toccare terra; la biblioteca è la terra del ricercatore: essa ridà forza, ridà idee, è l'umanità convenuta per servirti, per darti una mano. Solenne e domestica, la biblioteca sta a metà fra un tempio e una cucina.
La scuola mi aveva presentato le bibliotechine di classe, con letture fatte per comando o per scelta deliberata e personale, ma il rapporto con la biblioteca pubblica venne più tardi, quando entrai nel mondo dell'università. In verità il primo incontro risale agli anni dell'istituto magistrale. Ero andato all'Archiginnasio per consultare un libro segnalatomi da un professore – che era un professore colto: il libro era La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz. Entrai nella grande sala di lettura, con il lungo bancone dei prestiti in fondo, e mi trovai di fronte un bibliotecario arcigno che si chiamava Morara – era anche lui un uomo di qualità, un personaggio, a suo modo un'istituzione. Alla mia richiesta, disse in tono minaccioso: «Perché vuoi vedere questo libro?». Ed io, con una voce fievole – forse avevo ancora i calzoni alla zuava – risposi: «Perché me lo ha consigliato il mio professore!». Non poteva credere che fossi un attore così consumato e quindi il libro mi venne concesso. Quando lo ebbi in mano capii il motivo di quella interrogazione sospettosa: fra le tavole del libro vi era la riproduzione della danza di Salomé di Gustave Moreau. Ma dopo questo episodio isolato, l'esperienza della biblioteca in senso pieno, e la percezione iniziale di essa come di un mistero costruito, avvenne, dicevo, quando entrai all'università, nel 1941. A quel tempo facevo spesso supplenze da maestro elementare e le lezioni universitarie mattutine non le sentivo. Il caso volle che alcuni corsi pomeridiani fossero di grande qualità. [...] Costume di [Pietro] Ferrarino era di segnalarci i libri senza darcene la chiave, ma presentandoli semplicemente come possibili aperture culturali, affidate alla curiosità e alla buona volontà di chi ascoltava. Fra questi, citò un libro di Devoto, Storia della lingua di Roma [...]. Ricordo che mi presentai al bancone del prestito della biblioteca universitaria – era la prima volta che salivo lo scalone monumentale, che per me, che venivo da un mondo popolare, aveva qualcosa di aristocratico e di esaltante – e chiesi il volume di Devoto. Lo ottenni ed entrai nella grande sala di lettura, fra le arcate alte e le luci che si piegavano sui tavoli, con un odore unico di paraffina o di petrolio, di pulizia. E, di là dal libro di Devoto, di cui non capivo quasi nulla, mi resi conto che il rapporto con la cultura è sempre un rapporto col nuovo che ci permette di conoscere e, nello stesso tempo, di imparare ad accettare i nostri limiti e a combatterli. Prima e più dei libri mi colpì l'apparato che mi stava intorno: questa specie di solennità intima, silenziosa, con le teste chine sopra il libro e una sorta di stupore, dinanzi alla profusione architettonica dei locali, testimonianza di un grande Settecento che arieggiava il Rinascimento. Era come se la storia, consegnata a un edificio, investisse il ragazzo, non ancora diciottenne, che per la prima volta si iniziava al mestiere della biblioteca. «Che cosa passa per la testa di quelle persone che leggono, ostinatamente, piegate sul tavolo e immerse in un nuovo cielo, dimentiche di tutto il mondo circostante?», come avrebbe detto Rilke, di cui solo più tardi avrei letto le pagine straordinarie del Malte sulla Biblioteca Nazionale di Parigi. I gomiti poggiati sul tavolo, la tenacia e, magari, la comprensione limitata che mi veniva dal libro severo; e intorno a quel tavolo, un mondo fatato, dove le luci delle lampade, che sembravano provenire da un'operazione magica, proiettate sulle pagine, facevano uscire i libri dal buio e lo sfogliare lento pareva dettare il ritmo di un silenzio persistente, nel quale la parola tanto più parlava quanto più era muta.
Quella fu la prima conoscenza della biblioteca. Anche in quel caso, l'occasione era stata il piccolo dovere scolastico, una ragione modesta che schiuse una realtà nuova e produsse un evento i cui effetti erano destinati a permanere nel tempo; dopo di allora, a mano a mano che raccoglievo volumi e prendeva forma la mia biblioteca, c'era sempre quel profumo che mi portavo dentro, era sempre quella luce ad accendersi, quel silenzio gravido di parole nuove e di colloqui possibili a prolungarsi. Consegnato per sempre alla memoria, il primo incontro seguitò a ravvivare i nuovi contatti con i libri, e accompagnò il crescere di statura e di passo di un'esperienza che si andava facendo più diretta e più motivata. Così la biblioteca diveniva l'universo del sapere, da esplorare pezzo dopo pezzo, secondo le scoperte e le opportunità più diverse; il libro non era più quello scolastico, il manuale modesto, bensì l'opera del grande studioso, il grande classico. Ma il processo intellettuale, e l'innesco emotivo dello stupore e dell'avventura, restavano gli stessi.»
(Ezio Raimondi, Le voci dei libri, p. 10-11, 19-21).