- Fonte:
- Nino Palumbo, La mia università, Foggia, Bastogi, 1981.
«Era uno dei primi giorni di febbraio. [...] Da giorni non riuscivo ad andare avanti. Ogni sera tentavo di fare un passo avanti con Dante, ma non mi riusciva. Seduto al tavolo tondo che fungeva anche da tavola da pranzo per la mia famiglia, tentavo tutte le sere di leggere qualche canto della Divina Commedia, ancora dell'Inferno; ma tutte le volte, dopo una mezz'ora, mi davo per vinto. [...] Il commento era antico, mi rimandava sempre ad un "Anonimo" o ad un "Boccaccio", e soprattutto citava molto spesso "La vita nova", l'amore di Dante, la sua poesia amorosa. Così s'era andato maturando in me il convincimento che, prima della Commedia, dovessi leggere e studiare almeno questa vita.
Quella sera uscii fra la sorpresa dei miei. [...]
Camminai col desiderio d'arrivare a scoprire e conoscere questo romanzo di Dante, e con lo stato d'animo di dare alla vicenda d'amore una trama tutta mia particolare. [...] Piazza Castello. Da settimane rimuginavo quel pensiero. Avevo saputo da Gaetano, il meccanico, il primo amico di mio fratello a Milano, che lì c'era la biblioteca, e che era aperta anche di sera. Ci avevo pensato spesso, ma mai per decidermi ad andarvi. Credevo che fosse un palazzo vietato ai ragazzi, adatto solamente per i grandi, per gli istruiti, per i preparati.
Quella sera però, man mano che m'avvicinavo, sentivo crescermi dentro una decisione nuova, ferma.
Ma dove fosse, non sapevo con precisione. Gaetano m'aveva detto solamente: «Al Castello Sforzesco ci puoi trovare tutti i libri che vuoi». Arrivai all'ingresso e vidi tutto chiuso, buio. [...]
Stavo tentando di leggere alcuni cartelli in ferro appesi alle porte del Castello, quando mi sentii dietro dei passi. Era un signore, piuttosto piccolo, anziano. Lo abbordai subito.
«Scusi, sa dov'è la biblioteca del Castello?» Mi guardò piuttosto sorpreso. Fece: «Qui». Ed aspettò che dicessi qualche altra cosa. Ma io lo guardavo e gli facevo comprendere che non avevo capito.
«Apre alle nove. Fra qualche minuto». [...]
Volevo arrivare a biblioteca aperta. Domandare m'aveva già dato fastidio, anche farmi vedere in attesa m'avrebbe dato fastidio. Poi quell'essere guardato con curiosità. Va bene che avevo un cappotto, striminzito, stretto di spalle, corto sulle gambe, che non avevo niente in testa, che insomma non ero un ragazzo molto indicato per una biblioteca, pure la curiosità di quel signore m'aveva dato un po' fastidio.
Tornai indietro che erano le nove e cinque. Sulla porta, nessuno. [...] Solamente nel fondo a destra tre grandi finestroni da cui usciva una luce schermata da tende. Pensai che dovesse essere lì. Una porticina su cui era scritto "Biblioteca", e l'orario per il giorno e per la sera. Aprii piano piano. Mi consideravo un intruso. Temevo che fra qualche sarei stato messo alla porta. Non ricordavo neppure più perché c'ero venuto, che libro avrei desiderato vedere, guardare, leggere, conoscere. Il Dante della mia "Divina Commedia", da lontano, m'invitava a tornare nella mia cucina [...].
«Avanti. Chi è?» sentii una voce. voce. Mi affacciai. Richiusi. Un tepore, ma ancora estraneo, mi arrivò in faccia. Un uomo magro, con grosse lenti, era dietro uno scrittoio, alto. Un altro uomo era in piedi, un poco più in là, quasi vicino ad una porta grande, sotto una lampada. M'avvicinai all'uomo seduto, che m'aspettava. L'altro continuava a sfogliare un libro aperto fin quasi sotto gli occhi.
«Desidera?» mi fece l'uomo seduto. Mi si dava del lei, là dentro. Che strano! Pensavo d'essere trattato come un ragazzo. «Forse non ha visto ancora come sono vestito», conclusi.
M'avvicinai lo guardai e riuscii a dire: «Vorrei leggere la "Vita Nova" di Dante».
L'uomo seduto mi guardò incuriosito. Ma io sentii su di me anche gli occhi dell'uomo in piedi. Lo guardai anch'io un momento. In lui c'era la sorpresa. Ritornò subito con gli occhi sul libro.
«Ma quale "Vita Nova"?» mi domandò il bibliotecario.
«Ma non so, quella di Dante», dissi io, e mi sbigottii, credendo che di "vita nova" ce ne fosse più d'una.
«Sì, siamo d'accordo», fece l'uomo, buono, gentile, «ma commentata da chi?»
«Ma non so», dissi di nuovo io. Mi pentivo d'essere lì, d'essere venuto; avrei voluto girare sui tacchi e di corsa uscire, scomparire. Che ne sapevo io di commenti e di commentatori?
Per fortuna sentii di nuovo su di me gli occhi del signore in piedi. Mi pareva che mi sorridesse. Disse: «Gli dia quella del... » (e mi sfuggì il nome).
L'uomo si alzò, uscì. Io guardai un momento il signore e non fui capace di dirgli neppure grazie. Lui riportò di nuovo gli occhi sul libro, aperto, quasi fin sotto il mento. Dopo qualche secondo mi fece: «Vada dentro. Aspetti lì». Questa volta riuscii a dirglielo il grazie.
Entrai. Un salone grandissimo, a malapena da intravvedersi il fondo. Pieno di scaffali tutt'intorno fino al soffitto. E silenzio, ma accogliente, religioso, di quello che avevo sentito quando qualche volta al mattino presto (ancora prima dell'alba) ero entrato nella chiesa dei cappuccini al mio paese. [...]
Lunghi tavoli rotti solamente da un corridoio al centro, e sedie allineate ai due lati di ogni tavolo. E luci riverberate proprio sui tavoli, in modo da lasciare la testa e il busto di chi leggeva nell'ombra. Ora ero contento d'essere lì dentro. Mi sentivo tranquillo, in pace con me stesso e con gli uomini. Forse perché lì non c'era nessuno, forse perché pareva un angolo di terra dimenticato dagli uomini, o forse perché finalmente dopo mesi scoprivo nella mia nuova città un angolo di pace, in cui non sentissi intorno a me il senso del vago, del provvisorio. Era finalmente il luogo che avevo cercato, che avevo desiderato, quello che m'avrebbe disancorato dal ricordo della città che avevo lasciato [...].
C'era al secondo tavolo il signore piccolo. Non alzò neppure la testa. Ma forse perché camminai in punta di piedi. L'oltrepassai. Nessun banco mi pareva che facesse per me. Camminai nel corridoio fino in fondo. Volevo non essere visto, dimenticato. Temevo d'essere ancora un intruso, un importuno. Credevo che sarebbero arrivati altri lettori, ormai di casa, e che m'avrebbero rimproverato d'essere venuto ad introdurmi nel loro ambiente, nel loro mondo.
Mi sedetti all'ultimo banco ed aspettai. Da lì in fondo la sala pareva più piccola, ma ancora più accogliente. Intorno a me le luci erano tutte spente. Vidi affacciarsi il bibliotecario con un libro in mano. Guardò in giro. Mi cercava. Cominciò a venire avanti. Io non facevo niente per farmi notare. Avevo paura che mi rimproverasse perché ero andato a finire là in fondo. Mi vide, mi fu vicino, alzò la mano all'interruttore sulla mìa testa e l'accese.
«Non la vedevo più», disse, e mi mise il libro davanti.
«Grazie e scusi», feci e lo guardai.
«Prego. Chiudiamo alle undici e mezzo. Ma la restituzione va fatta qualche minuto prima». Disse le ultime parole mentre già tornava indietro.
Aprii il libro a caso. Prosa e versi. Poi provai a leggere. Ebbi paura. No, non era libro per me. Non capivo niente. Avrei dovuto leggere quel libro almeno venti volte prima di sapermi raccapezzare. [...]
Mi sentii sfiduciato, avvilito. Se non fosse stato per il disturbo che avevo arrecato al bibliotecario, se non fosse stato perché lui e l'altro signore m'avevano visto, ora me ne sarei andato, di soppiatto, come un ladro. Non era luogo per me, benché sentissi il silenzio, la penombra aderire al mio spirito, al mio bisogno di pace e di tranquillità.
«Ora dico che non ci capisco niente, ringrazio e vado via», mi dissi. «E chiedo scusa per il disturbo».
Ma non mi decidevo ad alzarmi. Guardavo in giro i libri allineati, la spalla del signore, molte file avanti a me, sentivo il silenzio e non mi decidevo.
«Ci sto qualche minuto. Almeno faccio capire che l'ho guardato il libro». Ma questo sotterfugio mi dava già fastidio.
Alzai gli occhi. A due passi da me vidi venirmi incontro il signore alto. Forse mi osservava già da prima. Continuò a venire avanti ed a guardarmi. Aveva un sorriso delicato, affettuoso, che disarmava. Mi fu vicino e rimase in piedi.
«Te la cavi?» mi domandò, senz'ombra di presunzione. Lo guardai. Aveva un occhio vivo, dietro le lenti cerchiate di nero. Il mento affusolato, le labbra sottili. Si vedevano solamente quando parlava e sorrideva. Le mani da lungo i fianchi le portava dietro la schiena e poi le riportava lungo i fianchi.
«Ma, veramente, non molto», dissi. Ma avrei voluto scoppiare a piangere. [...].
«Ho capito», fece. Si guardò in giro e poi venne a sedersi alla sedia vicino alla mia. «Vediamo. Forse ti posso aiutare io», fece.
Lo guardavo e mi pareva di non capire.
«Cosa fai? Studi?» mi domandò, e s'avvicinò il libro. Ascoltò senza alzare la testa.
«Faccio il fattorino, di giorno», dissi. «Ma voglio studiare. Ho incominciato da due mesi la "Divina Commedia", ma nelle note ci sono sempre i richiami alla "Vita nova". Per questo sono venuto».
Continuava a sfogliare il libro. Pensai che volesse che dicessi qualche altra cosa della mia vita.
«A metà del secondo ginnasio dovetti lasciare la scuola e andare a lavorare. Da allora ho cercato sempre di leggere, quando ho potuto. Mi piace studiare. È una cosa più forte di me».
Alzò la testa e mi guardò. Mi sorrideva, ancora affettuoso, comprensivo. «Quanti anni hai?» mi domandò.
«Sedici».
«E puoi venire la sera?»
«Sì», mi uscì come un fiotto, improvviso.
«Allora forse ti potrò aiutare io. Sono il direttore qui dentro», fece, ma senza voler dare molta importanza alla cosa. «Vediamo. Cominciamo dalla prima pagina».
Avvicinò di più la sedia alla mia. Allungò fino a me il libro e lesse [...].
Sentivo il suo petto quasi sulla mia spalla, il suo alito sul mio collo. Ma non mi dava fastidio. Mi pareva di aver trovato un altro padre, quello che da anni cercavo. Lo ascoltai fino alle undici e un quarto.
Da quella sera cominciò la mia università.»
(Nino Palumbo, La mia università, nel volume con lo stesso titolo, p. 145-155: 147-155. Il racconto, pubblicato per la prima volta nel primo numero del giornale di Rapallo «Il Tigullio» (7 aprile 1957) e poi uscito anche altrove, è stato inserito dall'autore nel volume Oggi è sabato e domani è domenica (Roma, Canesi, 1964) e poi in quello del 1981 a cui dà il titolo. La scena si può collocare intorno al 1937 e il bibliotecario descritto richiama Giovanni Bellini, allora vicedirettore e probabilmente responsabile del servizio serale).