- Fonte:
- Roberto Ridolfi, Vita di Giovanni Papini, Milano, Mondadori, 1957.
«Finchè un giorno [Giovanni Papini] non sentì dire da un ragazzo più grande che c’erano dei luoghi dove si poteva leggere qualunque libro senza spendere nulla, e averne anche più d’uno per volta, e che quei favolosi Bengodi erano le biblioteche pubbliche, ricche non a centinaia, ma a centinaia di migliaia, a milioni di volumi.
Mosse allora alla conquista della Biblioteca Nazionale [di Firenze], che era quella che ne aveva di più; ma fu sulle prime ributtato a causa dell’età. La storia di questo assedio alla città dei libri bisogna sentirla raccontare da lui sulle pagine di un suo libro famoso [Giovanni Papini, Un uomo finito, Firenze, Libreria della Voce, 1913]. Quando, poco più che tredicenne, dopo un intiero anno di assalti e di temporeggiamenti, l’ebbe finalmente espugnata per inganno, fu come un lupo digiuno capitato in mezzo a uno sterminato armamento. Ma non se ne saziò mai: tutt’al più ne fece memorabili indigestioni. [...]
Così il primo libro che chiese quel memorabile giorno, come ebbe espugnato la Nazionale, fu proprio il trattato di Giovanni Canestrini, La teoria dell’evoluzione esposta nei suoi fondamenti. E valeva di prenderne nota, come conferma che solamente un’ansia, una curiosità sfrenata continuavano a regolare, o piuttosto a non regolare affatto, la voracità del bibliofago in erba. Senza voler precorrerne le opere e i giorni, questa tendenza onnivora fu per Giovanni Papini edificazione e distruzione, rovina e salvezza.
Basta vedere le prime prede che azzannò quando fu nel bel mezzo di quel chiuso che ho detto; senza una guida, senza una disciplina, senza un disegno nè, si può aggiungere, un’istintiva regola. Veramente un disegno l’aveva: «saper tutto»; e non sapendo nulla, neppure da che parte rifarsi, sfarfalleggiava da questo a quel libro, secondo le voglie e la fantasia. Finchè, ahilui!, imparò a sfarfalleggiare su quei surrogati di ogni libro che sono le enciclopedie; e tanto lo inebriarono che gli venne addirittura la voglia di compilarne una lui, da solo, a quindici anni. Ed eccolo, ogni giorno libero dalla scuola, o dopo la scuola, in quella o in altre biblioteche cittadine, alla luce dei finestroni o delle lampade ad arco, scarabocchiare enormi quantità di schede e di appunti che la notte nella sua cameretta di ragazzo povero ricopiava in bella scrittura a lume di candela, forzando gli occhi sempre più stanchi, sempre più miopi. Arrivato all’articolo su Achille, certe parole incomprensibili greche lo umiliarono: graecum est, non legitur! Fu un salutare ammonimento e per poco non si ritirò come l’eroe sotto la tenda. Lo salvarono del tutto la sopraggiunta stanchezza e, forse più che un rinsavimento, l’irrequietezza della sua indole. Lasciò dunque l’impresa dopo qualche mese di furioso lavoro; ma il gusto dell’enciclopedie e dell’erudizione raccogliticcia gli doveva restare per tutta la vita.»
(Roberto Ridolfi, Vita di Giovanni Papini, p. 27-30. La testimonianza riassume fedelmente il racconto autobiografico di Papini pubblicato in Un uomo finito).