Baldini (1961)

Fonte:
Antonio Baldini, Sala di studio, deposito n. 32, «Almanacco dei bibliotecari italiani», 1961, p. 191-192.

«Quando, mezzo secolo fa, essendo ancora studente liceale, fui ammesso, con la malleveria ottenutami da Luigi Serra mio insegnante di Storia dell'arte, a frequentare la Sala di studio della Vittorio Emanuele, ed essendo stato segnato al mio nome il «deposito» numero 32, dove ogni giorno avrei potuto trovare i libri da me richiesti la sera precedente, mi parve di avere in tasca veramente la chiave del Mondo. Ero salito in un fiat dalla sala di lettura a pianoterra dei poveri diavoli all'Empireo dei frequentatori della riservata Sala di Studio, e scrivo studio con la esse maiuscola. Da quel momento cominciai ad avere un certo concetto di me, sentendomi così cresciuto da studente a studioso. Il solo fatto di potere spingere con le mie stesse mani, sotto l'occhio indagatore di Annibale Tenneroni (il solo caposala dei tanti che ci passarono che mi ricordi), la scaletta con le rotelle lungo quelle pareti, per arrampicarmi a tirar fuori a tutte le altezze i libri che mi occorreva di consultare, mi rendeva beato. Ancora mi rivedo correre poi su e giù per l'altra scaletta di legno che portava scricchiolando al ballatoio della zona superiore dove potevo avere a mia disposizione, insieme alle collezioni complete dei Classici, le soccorritrici annate del Giornale storico della letteratura italiana. E dove metto la soddisfazione di potere, sentendomi dietro le spalle il deposito numero 32 pieno di libri vecchi e di libri nuovi, tutti in attesa che io mi degnassi di sfogliarli, la soddisfazione, dico di potere assidermi gomito a gomito con docenti universitari di chiara fama, venerati santoni nostrani e forastieri dell'alta cultura e mettici pure qualche bianco frate domenicano con tanto di barba? E dove metto anche la consolazione sopraffina di potere ottenere in prestito anche dalle più lontane Biblioteche di Italia opere rarissime e preziosi manoscritti che il direttore di sala avrebbe gelosamente conservato per me sotto chiave in un famoso armadio, pronto con la sua chiave ad aprirlo appena io arrivassi e pronto con la sua chiave quando io me ne andassi a colazione e di nuovo pronto con la sua chiave appena tornassi in Sala di Studio col boccone ancora in bocca?
Che frutto poi io ne ricavassi da tanto indefessa frequentazione di anni e anni e anni, oggi non voglio indagare. Anno per anno, e scorrendone tanti, piano piano lo «studioso» cesse il campo al «dilettante», retrogradandosi da «innamorato» a «libidinoso», da «innamorato» di sapere a «vagheggino» di novità. Neanche la guerra non era bastata ad estraniarmi dalla Sala di Studio: intendo la guerra Quindici-Diciotto; perché quando poi ci cascò addosso la Seconda Mondiale il gusto di andare in Biblioteca, come di tante altre belle e care cose, l'avevo perduto...
Fanno oramai dieci malinconici anni che non ho più salito tutte quelle scale, e non solo perché già da tempo il mio cardiologo me l'ha sconsigliato: tutte quelle scale, che una volta avevo salito con tanto felice disposizione di spirito, quasi volando, sempre sicuro di trovare lassù in cima una risposta ad ogni mia richiesta, fosse pure per aver conforto dal Vocabolario della Crusca che potessi legittimamente fare uso di una certa parola col significato che mi pensavo di darle io.»

(Antonio Baldini, Sala di studio, deposito n. 32, p. 191-192. Il testo fu ripubblicato, col titolo Baldini alla Sala di studio, in «Cronache d'altri tempi», 23 (1976), n. 3, p. [14]).

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