- Fonte:
- Giorgio Bassani, Di là dal cuore, Milano, Mondadori, 1984.
«Non so più quando ho cominciato a frequentare Tolstoj. Credo da ragazzo, sentendone discorrere soprattutto a tavola dal papà e dalla mamma. Certo è che da giovanotto, quando già studiavo lettere a Bologna, Tolstoj era diventato uno dei miei livres de chevet. A differenza di altri miei condiscepoli, le cui letture preferite erano ormai quelle di Baudelaire, di Rimbaud, eccetera, e, magari, dei loro tardi seguaci nostrani, io ritornavo sempre là, a riprendere per conto mio a fantasticare su Nataša, sul principe Andrea, su Ivan Il'ič. Leggevo ormai anche Dostoevskij e Čechov, si capisce, e Gogol, e Puškin (questi due ultimi nelle mirabili traduzioni di Landolfi e Lo Gatto), ma per tornare sempre, non appena mi se ne dava il destro, al più grande, a Tolstoj. Era con lo stesso spirito, con lo stesso abbandono, che tornavo anche ad Omero.
La rilettura di Tolstoj che più mi è rimasta impressa avvenne tuttavia nella primavera del ’43. Durante i duri tre mesi che trascorsi in carcere, a Ferrara, dai primi di maggio al 25 luglio, rilessi con immenso trasporto Guerra e Pace. [...] In entrambe le circostanze mi sentivo disperato, addirittura prossimo alla morte. D'istinto cercavo conforto nella poesia, in quella vera, la quale, pur essendo diversa dalla vita, in fondo, il suo contrario, non può non tendere che a restituirtela, la vita, a farti sentire di nuovo al centro di essa.»
(Giorgio Bassani, A proposito di Tolstoj, in Di là dal cuore, p. 343-344).