- Fonte:
- Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1976.
«Ma in questo mondo che non possiede
nemmeno la coscienza della miseria,
allegro, duro, senza nessuna fede,
io ero ricco, possedevo!
Non solo perché una dignità borghese
era nei miei vestiti e nei miei gesti
di vivace noia, di repressa passione:
ma perché non avevo la coscienza
della mia ricchezza!
L'essere povero era solo un accidente
mio (o un sogno, forse, un'inconscia
rinuncia di chi protesta in nome di Dio...).
Mi appartenevano, invece, biblioteche,
gallerie, strumenti d'ogni studio: c'era
dentro la mia anima nata alle passioni,
già, intero, San Francesco, in lucenti
riproduzioni, e l'affresco di San Sepolcro,
e quello di Monterchi: tutto Piero,
quasi simbolo dell'ideale possesso,
se oggetto dell'amore di maestri,
Longhi o Contini, privilegio
d'uno scolaro ingenuo, e, quindi,
squisito... Tutto, è vero,
questo capitale era già quasi speso,
questo stato esaurito: ma io ero
come il ricco che, se ha perso la casa
o i campi, ne è, dentro, abituato:
e continua a esserne padrone...
Giungeva l'autobus al Portonaccio,
sotto il muraglione del Verano:
bisognava scendere, correre attraverso
un piazzale brulicante di anime,
lottare per prendere il tram,
che non arrivava mai o partiva sotto occhi,
ricominciare a pensare sulla pensilina
piena di vecchie donne e sporchi giovanotti,
vedere le strade dei quartieri tranquilli,
Via Morgagni, Piazza Bologna, con gli alberi
gialli di luce senza vita, pezzi di mura,
vecchie villette, palazzine nuove,
il caos della città, nel bianco
sole mattutino, stanca e oscura...»
(Pier Paolo Pasolini, La ricchezza del sapere, in La religione del mio tempo, p. 20-21.)