Mommsen (1864)

Fonte:
Lettere di Theodor Mommsen agli italiani, a cura di Marco Buonocore, Città del Vaticano, Biblioteca apostolica vaticana, 2017.

«Pregiatissimo Signore,
Rispondo subito alla domanda ch’Ella mi fa riguardo la quistione de’ manoscritti, se e sotto quali condizioni si possono dar fuori.
Sull’opportunità di tali imprestiti, come giustamente ella osserva, non possono essere due pareri diversi. Le biblioteche pubbliche debbono servire per gli usi pubblici, e l’uso dei codici spesso è praticamente impossibile, se non si mandano fuori; tanto più che molte volte bisogna avere due o più manoscritti insieme sotto gli occhi, per poter portarne giudizio pieno e certo. In questi giorni ho finito una nuova edizione di Solino, per cui ho avuto la rara fortuna di tener insieme per sei mesi interi sul mio tavolino, i tre manoscritti più importanti che se ne conoscano, appartenenti l’uno a Wolfenbüttel in Germania, l’altro a Leida in Olanda, il terzo a Parigi. Perciò, ella vedrà dedicata questa edizione alle tre suddette biblioteche, meritamente, e spero che questo precedente non resterà solo. L’esperienza poi l’ha provato, che il numero dei manoscritti malandati o maltrattati per conseguenza di tali imprestiti, è quasi nullo e forse minore di quei che si smarriscono o si storpiano nelle biblioteche istesse. Si rinnova anche per questo il noto rapporto delle disgrazie che accadono alle carrozze ed alle strade ferrate.
Ma vero è pure che bisogna usar di gran precauzione per tali imprestiti, e che val meglio non dar fuori affatto, che dar fuori indiscretamente.
Leggi certe e generali per questi imprestiti, non esistono né in Germania, né in Francia. È quistione proprio di dominio, ed ogni proprietario fa come vuole. Perciò, per esempio, le biblioteche comunali, molte volte sono assai più ritrose, che quelle dipendenti dai governi; ed io stesso ho provato, che è molto più facile ottenere un imprestito dall’imperatore dei Francesi, che dalla municipalità di Valenciennes. Ma siccome in Francia e più ancora in Germania, il numero delle biblioteche importanti per manoscritti e non appartenenti al governo, non è molto esteso, l’affare generalmente dipende dai governi, e fra questi praticamente si è stabilita la legge di reciprocità. Quel dotto, a cui occorre di riscontrar un codice di qualche biblioteca estera, tedesca, o francese s’indirizza al suo governo; questo poi, se la persona gli par degna, domanda il codice in suo nome a quel governo a cui tocca, ma aggiungendo / sempre chi lo domanda, e per qual uso e per qual tempo deve servire. Così l’affare si termina, e se la preghiera viene accordata, le spese dell’invio toccano ai governi: la diplomazia che ci fa tanto patire, almeno ci rende questi servizi gratis. Cauzione non si domanda mai, ed a ragione; perché lo smarrimento di un buon manoscritto, è una disgrazia che si può compensare bensì per chi tiene bottega, ma non già per lo Stato. Per regola il sì o no, dipende materialmente dal bibliotecario direttore dello stabilimento a cui appartiene il manoscritto, il governo a cui viene richiesto, rivolgendosi a lui per avere il suo avviso. Avviene anche molto spesso, che a persone conosciutissime e che offrono ogni sicurezza possibile, il capo bibliotecario manda i manoscritti senza l’intervenzione dei rispettivi governi, che non può non tirare a lungo: ma questo egli lo fa sulla sua responsabilità, ed è un uso piuttosto tollerato che ammesso, per cui sempre ci vuole somma discrezione.
Se ella mi domanda il mio avviso su ciò che dovrebbe stabilirsi in Italia, io consiglierei soprattutto a non far più che non facciamo noi avvezzi da secoli ad un uso molto liberale delle pubbliche biblioteche. Ogni italiano deve avere diritto di chiedere qualunque manoscritto al suo governo, il governo accorda o rifiuta le domande dopo aver preso il parere del bibliotecario. Ma le ragioni perché sì perché no, nessuno potrà domandarle, perché generalmente non si possono dire ad alta voce e tutto è affare di discrezione. Né è diritto civico di avere i manoscritti a casa, ma favore eccezionale accordato dallo stato ai letterati distinti e solleciti. Il bibliotecario vuol essere udito, ma non deve avere il voto decisivo, perché allora tali imprestiti facilmente o non si farebbero mai o assai troppo. Va senza dire, che la nostra usanza di risparmiare alle volte l’intervenzione del governo né deve introdursi né lo può: forse sarebbe anzi necessario di vietar ciò espressamente. Per l’estero sarebbe a desiderare che l’Italia entrasse in quella lega internazionale di cui ho parlato più sopra; riservandosi però sempre di esaminare le particolarità d’ogni domanda, e, comunque sia un governo che chiegga il manoscritto, sentir pure per qual dotto si chiede. Per tutto ciò al mio avviso basterebbe un regolamento semplicissimo. È affatto impossibile d’indicare au préalable i casi in cui si daranno i manoscritti e in cui si hanno da negare. Dipende tutto dalla qualità della persona e dall’oggetto degli studi; una impresa come i Monumenta Germaniae, il Corpus inscriptionum hanno diritto a ben altri favori eccezionali che i progetti di privati. Forse si potrebbe accennare che i veri cimeli non si daranno mai a casa; come, per esempio, le Pandette non debbono far altro viaggio dopo quello da Pisa a Firenze. Ma fissare legalmente, cosa sia cimelio, è cosa impossibile; come lo prova quello assurdo regolamento della grande biblioteca di Parigi di dar fuori tutti i manoscritti eccettuato per ogni autore il migliore, che fortunatamente per essere assurdo in se stesso si rifiuta ad essere messo in piena pratica. Quel che sarebbe a desiderare, sarebbe una estensione di un siffatto regolamento anche sopra le biblioteche maggiori che non sono pienamente di pubblica proprietà, specialmente sull’Ambrosiana. Ma tale estensione sarebbe una vera legge di espropriazione, e soggetta a tutte quelle gravi difficoltà che in ogni stato ben regolato accompagnano le infrazioni anche necessarie del diritto di proprietà, né tocca a me di entrare in questa discussione tutta di dritto pubblico italiano.»

(Theodor Mommsen, lettera a Domenico Comparetti, 14 marzo 1864, vol. 1, p. 470-473).

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