- qualifica
- Attore, capocomico
- data di nascita e morte
- Rimini, 24 ottobre 1786 - Roma, agosto 1867
Biografia
Nacque nei pressi di Rimini nel 1786, ultimo degli otto figli di un fattore, in una "onesta e agiata famiglia" (Pinelli, p. 15) di costumi particolarmente rigidi. Ben presto destinato alla vita religiosa, il D. fu alunno del seminario di Rimini dal 1795 al 1797; quando le mutate condizioni politiche ne imposero la chiusura, il padre lo affidò alla guida di un domenicano.
Fu, secondo il Civinini, in questi anni che il D. scoperse il fascino del teatro e iniziò a coltivare di nascosto questa passione, frequentando le rappresentazioni dei filodrammatici cittadini e leggendo avidamente le opere di Metastasio. Scoperto, fu costretto a rinunciare alla carriera ecclesiastica e iniziò una vita randagia, che lo vide prima a Fano presso una sorella sposata, quindi arruolato come volontario nella guardia nazionale, infine a Senigallia con la prospettiva di associarsi ad uno zio commerciante. Qui ricominciò ad interessarsi di teatro; nel 1804 fondò una piccola compagnia filodrammatica e nel 1806 entrò, all'insaputa dello zio, nella compagnia di un tal Rocchetti, debuttando a jesi con il ruolo del cieco in Loscrittore e il cieco di C. Federici. Le prime esperienze di attore in compagnie di infimo ordine furono tutt'altro che incoraggianti: la ditta Rocchetti si sciolse dopo pochi mesi di vita stentata e il D. accettò una scrittura per la compagnia di Giovan Battista Medebach, figlio del più celebre Girolamo, che conduceva senza mezzi e senza ambizioni una piccola accolita di guitti e qui fu partecipe "di molti misfatti della vecchia guitteria..., di molte burle di cattivo genere che più tardi avrebbe giudicate come offese alla dignità artistica" (Salvini, p. 21).
Dopo il carnevale del 1807 il D. abbandonò di nascosto Medebach e si unì a una compagnia poco più che dilettantesca, diretta da un tale Stracca. Con questa ditta si esibi a Senigallia, ad Ancona, ad Osimo e a Bevagna con alterna fortuna: il pubblico di Osimo, infastidito dallo stile enfatico e concitato della sua recitazione, lo fischiò sonoramente, mentre altrove venne accolto con interesse e simpatia. L'esigenza di attirare nuovi spettatori lo costrinse ad improvvisarsi mimo e ballerino, ma nonostante questo tentativo, per altro riuscito decorosamente, le sorti della compagnia non migliorarono; lo Stracca fuggi, lasciando senza mezzi i suoi attori che improvvisarono una nuova società. Per vari mesi, esibendosi nei paesi della Toscana, il D. e i suoi compagni riuscirono a tenere in vita la società finché l'intervento della censura per una frase sconveniente pronunciata dal D., che interpretava il ruolo del figlio discolo in Ilpadre di famiglia del Goldoni, causò lo scioglimento del gruppo. Giunto a Firenze, egli si scritturò come primo attore con Pettini e si produsse oltre che nel teatro di prosa anche nel melodramma con un discreto successo personale. Anche questo sodalizio fu di breve durata, poiché il D. preferi non seguire il Pettini in una tournée in Corsica e, lasciato il capocomico, fondò nel 1809 una sua compagnia con la quale si esibi a Piombino e Portoferraio. Nell'autunno dello stesso anno approdò alla compagnia stabile del teatro di Borgo Ognissanti di Firenze; alla fine della stagione formò ditta con l'attore Collocchieri, che godeva di un certo prestigio, destinata a rimanere in vita per due anni con alterne vicende.Le peripezie di questi anni e la dimestichezza del D. con attori di infimo ordine hanno reso credibili una serie di aneddoti su questa fase della sua vita, evidentemente inventati; il più noto è quello che lo vide prodursi, a capo di una miseranda accolita di guitti, in Filippo di Vittorio Alfieri: "Conoscendo il suo pubblico, pensò di mandare a letto allegri quei bravi coloni e all'improvviso mutò la chiusa terribilmente tragica di quel lavoro in "lieto fine". Il caso volle che alla rappresentazione fosse presente, in incognito, l'Alfieri stesso; il tremendo astigiano si precipitò sul palcoscenico, improvvisato su delle botti, e bastonò di santa ragione il Domeniconi" (Leonelli, p. 310); sfugge infatti al biografo che Alfieri era morto prima che il D. iniziasse a calcare avventurosamente le scene.
Tornato nel 1811 a Firenze in cerca di un nuovo ingaggio, incontrò alcuni buoni attori che la guerra aveva costretto a rimanere in Toscana: Elisabetta Baldesi Marchionni, Antonio Belloni, Ferdinando Meraviglia e si associò a loro con non poche titubanze. La compagnia, che prendeva il nome da una figlia di Elisabetta, la diciassettenne Carlotta Marchionni, ebbe all'inizio una vita piuttosto travagliata e il D., dopo alcuni mesi, rinunciò ad esser socio, rimandendovi per oltre dieci anni come attore stipendiato. All'origine di questa scelta non vi furono solo, come afferma il Colomberti, preoccupazioni economiche, ma anche la crescente rivalità del Meraviglia, che poco accettava il successo del giovane e sconosciuto attore. Malgrado il pubblico lo reclamasse sempre più spesso nei ruoli di primo attore, il D. preferi, almeno dapprima, tenersi in disparte, nel ricordo dei suoi inizi estremamente oscuri; fu infine S. Pellico a imporre al pubblico la personalità del Domeniconi.
Reduce dalla stroncatura di Ugo Foscolo alla sua Francesca da Rimini, il Pellico sottopose al giudizio di Carlotta Marchionni l'opera che venne in parte ritoccata, secondo il Civinini su consiglio del D., e rappresentata con grande successo a Milano il 18 ag. 1815. Accanto a Carlotta, "ricca di un sentimento facile a trasmettersi agli altri" (Pinelli, p. 47), il D. comparve nei panni di Paolo, ottenendo un grande successo, benché la sua figura tozza e i suoi tratti pronunciati mal si adattassero alle caratteristiche del personaggio. Nelle repliche successive venne relegato al ruolo di tiranno, mentre il Meraviglia interpretava il giovane eroe, ma in questo nuovo allestimento l'opera non convinceva e lo stesso Pellico intervenne, minacciando una sospensione dei diritti alla compagnia se il D. non fosse apparso nei panni di Paolo. Questa piccola vittoria impose il D. come primo attor giovane, ruolo che interpretò alternandolo con quello di tirannol di generico primario, di amoroso e di primo attore, dimostrandosi versatile e in grado di sedurre la platea anche grazie "all'affiatamento sicuro e perfetto" (Pinelli, p. 47) trovato dal D. con la prima attrice, alla vivacità del temperamento, alla voce squillante ed estremamente attraente. Tra i ruoli più significativi, interpretati con la compagnia Marchionni, vanno ricordati alcuni personaggi, come il citato Paolo, Everardo in Igina d'Asti e il conte di Mendrisio nella Gismonda di Pellico, Egisto nell'Agamennone e Filippo in Filippo di Alfieri, Zambrino in Galeotto Manfredi e Aristodemo nell'omonima opera di Monti.
Nel 1818 il D. fu costretto ad abbandonare le scene per un improvviso disturbo vocale che gli fece temere di rimanere afòno. Dopo alcuni mesi di cure intense si ristabili e tornò alla compagnia Marchionni, dove rimase fino al 1823. Passò quindi come tiranno assoluto e generico primario nella compagnia formata da A. Belloni e F. Meraviglia, e qui fu attivo quattro anni e in seguito, come primo attore, nella formazione diretta da Romualdo Mascherpa. Nel 1832 formò compagnia insieme a Ferdinando Pelzet, con Maddalena Pelzet prima attrice, Luigi Taddei caratterista.
Come afferma il Costetti, il D. "levava ovunque romore di fanatismo" (p. 56), tanto che, in occasione di una serie di rappresentazioni tenute a Pistoia nell'estate del 1833, i locali amanti del teatro gli dedicarono una nutrita serie di omaggi letterari nei quali si lodava la sua capacità di esprimere in modo solenne ed efficace i più nobili sentimenti, conciliando, con evidente sensibilità per il gusto romantico, pathos e realismo.
Il successo non fu però sempre senza riserve; a Roma, dove recitò al teatro Valle, il D. suscitò con la sua recitazione deciamatoria e ampollosa un coro di proteste, ma l'insuccesso fu di breve durata e, dopo poche repliche, "il pubblico di Roma dovette ricredersi e il Domeniconi divenne l'idolo dei romani, riscuotendo infiniti applausi" (Mazzocca, p. 125). Anche Paolo Costa criticò aspramente la recitazione del D. al quale dedicò un violento sonetto. Per nulla offeso, il D. invitò il Costa a una rappresentazione del Filippo dell'Alfieri e fu "sobrio, verecondo, semplice, attore veramente preclaro, ma non strappò neppure un applauso dal pubblico" (Rasi, p. 776).
Questa particolare sensibilità al gusto del pubblico non impedì però al D. di esercitare una attenta e intelligente critica nei confronti del teatro contemporaneo e di contribuire al generale perfezionamento dello stile della messa in scena che caratterizzava il teatro romantico europeo. Insofferente di tutti i vincoli posti dalla censura e all'"uso barbaro" di alternare la prosa con il teatro in musica, collaborò attivamente, malgrado la scarsa cultura, con numerosi drammaturghi, giudicando con meticolosa attenzione anche le opere rifiutate e consigliando uno stile chiaro ed efficace; nacquero così le opere scritte appositamente per lui da G. B. Niccolini, Giovanni da Procida e Ludovico il Moro, e l'Eufemio di Messina del Pellico, che non venne mai rappresentato per il divieto della censura. Come capocomico egli "nulla trascurò e risparmiò per accrescere il decoro. Fu il primo ad innalzare il lusso della scena a tal punto che il solo Fabbrichesi poté paragonarsi a lui. Incoraggiò e premiò per primo i poeti drammatici, accrebbe gli onorari degli artisti, ammise nella sua compagnia molti dilettanti" (Colomberti, p. 128). Agli attori il D. chiedeva una recitazione fedele al testo, chiara, viva e soprattutto preparata con cura che evitasse ogni improvvisazione e contribuisse alla dignità della messa in scena. L'attenta analisi del testo rappresentava del resto, sia in positivo sia in negativo, una caratteristica dello stile del D.: "Colla interpretazione particolareggiata, sminuzzata, egli incideva i pensieri più riposti di una parte. La sua recitazione era, si puo dire, un commento in azione" (Rasi, p. 776).
Nel 1835 egli ritornò con il Mascherpa; costituì quindi nel 1836 una compagnia con la prima attrice Carolina Internari e nel 1840 fu scritturato al teatro dei Fiorentini di Napoli dalla ditta di A. Alberti, P. Monti e G. Prepiani. Malgrado il grande successo di pubblico non venne risparmiato dalla satira dei critici, sempre meno convinti dal suo stile "ad effetto": la rappresentazione di L'ombra di un vivo di L. Marchionni, nella quale il D. si esibiva in bravure acrobatiche, scalando un palazzo incendiato tra le grida delle vittime e il crepitare delle fiamme, provocò un coro di disapprovazioni. Nel 1843 diede vita a due compagnie, la prima diretta dallo stesso D. e la seconda affidata ad Antonio Colomberti e a Gaetano Coltellini, che raccoglieva attori di eccellenti possibilità - Carolina Santoni, Anna Job, Costantino Venturoli, Amilcare Bellotti -, ma questa iniziativa non ebbe fortuna, più che per l'estrema munificenza del D., come sostiene il Colomberti, per le carenze organizzative dell'impresa che presentava successivamente negli stessi teatri due compagnie di eguale valore, con un identico repertorio e un identico stile nella messa in scena e nella recitazione. Dopo l'interesse iniziale, il pubblico cominciò a disertare le rappresentazioni e il D. fu costretto a riunire le due compagnie; infine, gravato di debiti, si scritturò con la Compagnia reale sarda per far fronte ai suoi impegni.
Uscitone dopo un anno, il D. diede vita a un'altra compagnia di ottimo livello e destinata ad avere grande fortuna, anche per la presenza come prima attrice di Adelaide Ristori che, con la sua recitazione vibrante e spontanea, rendeva più moderni gli allestimenti della ditta. Accanto alla Ristori erano attivi Anna Job, Carolina Santecchi, Annetta Ristori, Gaetano Coltellini, Amilcare Bellotti, Gaspare Pieri, Achille Job, Tommaso Salvini, impegnati in un repertorio vasto e pregevole: Francesca da Rimini del Pellico, Pia de' Tolomei di Marenco, Giulietta e Romeo di Shakespeare, La locandiera e Le gelosie di Lindoro di Goldoni, Maria Stuarda di Schiller, Adriana Lecouvreur di Scribe ed E.-W. Legouvé. Nei quattro anni di vita di questa società il D. riusci a saldare tutti i suoi debiti e a consolidare il suo successo, tanto che il momentaneo ritiro della Ristori dalle scene, avvenuto nel 1851, non ebbe conseguenze per le fortune della compagnia. Nella sua ditta rimasero Amalia Fumagalli, Clementina Cazzola, Alamanno Morelli, Gian Paolo Calloud. "Per altri dieci anni, cioè a tutto il 1860, riusci a sostenersi sempre con una primaria compagnia, e col suo credito di uomo onestissimo" (Colomberti, p. 129). Il triennio 1861-1863 fu invece rovinoso per il D., considerato ormai dalla critica attore e direttore superato, incapace di rinnovare lo stile e il repertorio.
A Roma, dove si trovava per un tournée al teatro Valle, ebbe un leggero colpo apoplettico nella primavera del 1863. Ristabilitosi-, venne decorato nella quaresima di quell'anno cavaliere dell'Ordine sabaudo dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Ma un nuovo colpo lo costrinse a Viterbo, nel corso dell'estate, ad abbandonare le scene. Si ritirò a Roma, dove visse gli ultimi anni circondato dall'affetto e dall'aiuto dei suoi attori di un tempo.
* Tratto da: Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 40 (1991), s.v.
sitografia
LUIGI DOMENICONI: L'OTTIMO ARTISTA (1788-1868)