Moncada di Paternò - Storia della famiglia

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Una “success story”: così Maurice Aymard definisce l’ascesa di questo nobile casato che, giunto al seguito di Pietro III d’Aragona alla fine del Duecento, in soli tre secoli si attesta come il più ricco della Sicilia e uno dei più ricchi di tutte le aristocrazie europee.

Orchestrando un’astuta quanto accorta politica matrimoniale gli “Heroi Moncadi” stringono legami ed alleanze con le famiglie più potenti del Regno di Sicilia e di Spagna, acquisendone titoli e patrimoni, accumulando feudi e terre popolose, tanto da inserirsi brevemente e a pieno titolo tra i più alti ranghi del potere isolano.

Fa da premessa alla lettura di queste vicende l’emanazione dei capitoli  Si aliquem et Volentes; concepiti per allontanare il pericolo del ritorno di terre alla Corona in assenza di eredi diretti, essi prevedevano la trasmissione dei feudi a gradi di parentela indiretta e alle donne, scatenando una vera e propria “caccia alle figlie ereditiere”, portatrici non solo di dote in gioielli e denaro, ma anche di patrimoni feudali in grado di allargare la base fondiaria delle famiglie con cui contraevano matrimonio.

Così nella prima metà del Trecento, dal matrimonio con Lukina di Brindisi, figlia di Guglielmo di Malta, il capostipite dei Moncada Gugliemo Raimondo I otteneva Malta e Gozo, poi scambiate con Altavilla, Melilli e Augusta. Seguendo le orme del padre, Guglielmo Raimondo II sposava Margherita Sclafani, figlia del Maestro Razionale Matteo Sclafani, e consentiva al figlio Matteo II, dopo lunga contesa coi Peralta, di acquisire alla morte del nonno materno la Contea di Adernò, il primo dei feudi Moncada in Sicilia.

Matteo, inoltre, rinsaldava i legami tra le due famiglie di origine catalana, nucleo fondante della nuova elitè siciliana, sposando in prime nozze Giovanna Peralta, figlia di Raimondo Conte di Caltabellotta.

La “caccia alle figlie ereditiere” non si fermava neppure dinnanzi a vincoli di consanguineità: nella seconda metà del Quattrocento, Guglielmo Raimondo VI, figlio di Giovanni Tommaso e già Principe di Paternò, per mettere la mani sulla Contea di Caltanissetta, non esitava a sposare − con dispensa papale secondo una prassi ormai diffusa − Contissella, unica figlia del cugino Antonio II, con cui condivideva i diritti ereditari, riuscendo peraltro a riunire i due rami siciliani dei Moncada. 

Il matrimonio endogamico tra i due cugini sanciva la nascita di un vasto regno feudale che insisteva su buona parte dell’isola, tanto su territori della Sicilia centro-occidentale quanto su terre della zona etnea. I Moncada, principi di Paternò e due volte conti, titolari adesso anche di terre popolate, tra cui Biancavilla e Centorbi, assumevano un posto di rilievo all’interno del Parlamento siciliano e proseguivano la loro personale ascesa sociale e politica divenendo una delle famiglie più influenti dell’isola.

Lo stesso Guglielmo Raimondo, marito di Contissella, ricoprì importantissimi ruoli: Generale Comandante delle truppe siciliane contro i Turchi nel 1492, Maestro Giustiziere nel 1501 e Presidente del Regno nel 1509, carica che mantenne fino alla venuta in Sicilia del Vicerè Ugo Moncada. Antonio III, suo figlio, diveniva invece Deputato del Regno, Capitano Generale delle milizie e Vicario Viceregio, riuscendo ad acquistare all'asta, nel 1526, un’altra terra popolata, la baronia di Motta Santa Anastasia.

Ancora, nella prima metà del Cinquecento, Cesare Moncada, vedendo sfumare per l’ingerenza del Vicerè Juan Cerda, Duca di Medinaceli, il matrimonio con la cugina Giovanna Ponzio Marino, si apprestava alle fortunate nozze con un’altra cugina, Aloisia Luna, figlia del Duca di Bivona e nipote per via materna del Vicerè Juan Vega.

Così da un sabotato matrimonio i Moncada acquistavano, inconsapevolmente, la regista delle proprie fortune, la stratega destinata a reggere le sorti della famiglia per ben cinquant'anni.

Dotata di un’innata attitudine al comando e di indubbie capacità di gestione ed amministrazione, Aloisia, sposa a soli quindici anni, sarebbe riuscita ad orientare, con mirate politiche dinastiche e matrimoniali, i destini di ben tre casati - quello dei Moncada, quello dei Luna e quello degli Aragona – e a riunirne i patrimoni.

Rimasta prematuramente vedova, la giovane duchessa ricorreva prontamente e con scaltrezza alle armi del diritto e ad amicizie influenti. Nel 1575 otteneva la piena tutela del figlio e la curatela del vasto patrimonio dei Moncada (Paternò, Adernò, Centorbi e Biancavilla, baronia di Motta S.Anastasia e Contea di Caltanissetta); nel 1584 riceveva in concessione dal fratellastro Giovanni gli Stati feudali dei Luna (ducea di Bivona, Caltabellotta, Sclafani, baronie di Castellammare, Caltavuturo e numerosi altri feudi) e vi aggregava, attraverso un doppio matrimonio, anche i possedimenti degli Aragona (ducea di Montalto nel Regno di Napoli e Contea di Collesano nel Regno di Sicilia).

Nel 1577 aveva perciò sposato in seconde nozze il duca di Montalto Antonio Aragona, vedovo di Maria La Cerda, e “comprato” al contempo, con la sua dote, la promessa di matrimonio tra il figlio Francesco II e Maria, primogenita ed ereditiera del duca.

Così, sul finire del XVI secolo, ad opera di Aloisia, personaggio chiave della nostra “success story”, prendeva durevolmente forma il patrimonio stabile dei Principi di Paternò, quale si sarebbe mantenuto per oltre due secoli.

La precoce scomparsa del figlio Francesco, mecenate e fine cultore delle arti, segna una svolta nel progetto dinastico di Aloisia. Con la consueta lungimiranza, perseguendo l’intento di rafforzare i legami con la Spagna e la sua nobiltà e di dare alla politica dei Moncada un respiro più ampio, al di là dei ristretti confini isolani, organizzava il riavvicinamento del casato alla corte madrilena.

Presa la tutela dei nipoti-eredi, in primis dell’amatissimo Antonio IV, li inserì a pieno nel sistema di potere, titoli ed onore della corte spagnola, procurando loro matrimoni prestigiosi: Antonio sposava Giovanna La Cerda, mentre sua sorella, Aloisia, andò in sposa a Eugenio Manriquez di Padiglia.

In questo modo la “generosa stirps Moncada” guadagnava nel XVII secolo un nuovo teatro per le proprie ambizioni politiche e matrimoniali: la Spagna e i suoi possedimenti. Qui Antonio nel 1609 otteneva l’ambita collana del Toson d’oro esibita nella stemma, massima onorificenza concessa dalla Corona spagnola ai suoi Grandi; qui Luigi Guglielmo, introdotto alla corte madrilena dalla seconda moglie Caterina Moncada, favorita dama della Regina Isabella, diveniva uno dei protagonisti indiscussi della politica di quegli anni, ricoprendo le più prestigiose cariche (Presidente del Regno dal 1635 al 1638, Viceré di Sardegna nel 1647, Viceré di Valenza nel 1657, membro del Consejo de Estado nel 1666 e persino cardinale nel 1669) ed affiancandovi un poderoso bagaglio di titoli (Generalissimo di cavalleria del Regno di Napoli, Gentiluomo di Camera di Filippo IV, Cavallerizzo maggiore della regina Anna d'Austria, Maggiordomo maggiore del Re Carlo II, Grande di Spagna).

È proprio con Luigi, artefice del ricongiungimento dopo tre secoli dei due rami Moncada, quello siciliano e quello spagnolo, che alla metà del XVII secolo la parabola d’ascesa del casato sembra raggiungere il suo apice.

Segno e sigillo del ruolo raggiunto è l’imponente biografia commissionata da Luigi all'abate Della Lengueglia. L’opera, intitolata “I Ritratti della Prosapia, et Heroi Moncadi nella Sicilia. Opera historica-encomiastica”, si configura come una consapevole esaltazione del gruppo familiare e della potenza patrimoniale, politica e sociale conquistata attraverso le preziose alleanze matrimoniali con gli altri casati.

Non a caso l’insegna gentilizia della famiglia, posta ad incipit della Prosapia, appariva circondata dalle armi dei lignaggi congiunti per matrimonio, agganciate simbolicamente a quella catena che, alludendo al mito della fondazione eroica da parte di Teodone, spiegava l’origine del nomen del casato: Teodone duca di Baviera, aveva chiuso ai nemici mori “l’angusto varco di due monti divisi”. Da qui il cognome Montecateno, poi corrotto in Moncada.

Nonostante i propositi di unità e continuità dinastica, espressi con chiarezza nella biografia, una lunghissima contesa successoria fra i due rami del casato appena riuniti, esacerbata anche da rivendicazioni demanialiste di città come Caltanissetta e Paternò, avrebbe di lì a breve determinato la fine dell’unità patrimoniale e territoriale del grande “regno” Moncada, fino ad una nuova ricomposizione sul finire del secolo XVIII.

Ferdinando, a dir il vero, intendeva proseguire l’“heredità” ricevuta in consegna dal padre, attraverso il solito travaso di titoli, patrimoni e parentadi illustri e, in tale prospettiva, sceglieva per l’unica figlia ed erede Caterina un’altra alleanza matrimoniale prestigiosa, destinata ancora a rinsaldare i vincoli con la grande nobiltà iberica vicina alla corte madrilena.

Tuttavia, dandola in sposa al titolatissimo Giuseppe Federico Alvarez de Toledo e de Cordoba, Duca di Ferrandina e Marchese di Villafranca, e designandola quale erede di tutto il patrimonio Moncada, scatenava una “lite poderosa” tra gli Alvarez ed il ramo siciliano, rappresentato dal cugino Luigi Guglielmo Raimondo Moncada, Duca di San Giovanni.

Questi, richiamandosi ad un antico fidecommisso agnatizio che prevedeva, in mancanza di figli maschi nel ramo principale, la successione per via maschile anche attraverso rami collaterali, contestava l’investitura di Caterina e si reclamava quale legittimo erede di Ferdinando.

L’aspra contesa spinse il Tribunale della Regia Gran Corte a sottrarre temporaneamente alla famiglia la titolarità dei suoi feudi e a curarne l’amministrazione fino al 1730, anno della stipula di un primo accordo fra le parti contendenti.

Con un “Atto di contentamento” i due rami della famiglia decidevano dunque per la momentanea spartizione delle immense proprietà e delle rendite patrimoniali tra Caterina e il figlio Federico Vincenzo Alvarez, duca di Ferrandina, da un lato e Luigi Guglielmo Moncada, Duca di San Giovanni e suo figlio Francesco Rodorico dall’altro. Il responso definitivo della corte sarebbe arrivato a quasi un secolo di distanza dall’inizio della contesa. Nel 1797 il Tribunale del Concistoro assegnava l'intero patrimonio al ramo siciliano e ai suoi discendenti, riconoscendo Giovanni Luigi Moncada, rampollo di Francesco Rodorico e Giovanna Ruffo, unico successore per l'intero asse ereditario; al contempo condannava il Ferrandina a versare al principe, quel Giovanni Luigi che avrebbe retto le sorti e il governo della "dinastia" fino al 1827, un esoso risarcimento per gli introiti maturati sulle terre che a questi restituiva.

Giovanni Luigi Moncada, ultimo Principe di Paternò, chiude la nostra “succes story” e l’illustre galleria dei molti “Heroi Moncadi.

Protagonista di anni difficili, in cui lo spazio feudale andava disarticolandosi mentre tre dinastie − quella dei Savoia, quella degli Asburgo d’Austria e quella dei Borbone − si succedevano sul trono del Regno accendendo il nazionalismo siciliano, Giovanni Luigi avrebbe saputo affrontare con carattere ed intraprendenza i mutamenti politici ed istituzionali del suo tempo, riuscendo a riportare il patrimonio, il prestigio sociale e l'influenza politica del casato ai livelli dei secoli d'oro.

Proseguendo di fatto quella politica di alleanze matrimoniali che aveva costruito la fortuna dei Moncada, questi concludeva per sé due unioni influenti con giovani donne della nobiltà palermitana.

Così facendo, si inseriva a pieno titolo tanto nella vita politica palermitana quanto in quella della corte napoletana, guadagnandone cariche eccellenti: lo sappiamo Superiore della Compagnia dei Bianchi di Palermo nel 1772, Capitano di Giustizia della capitale siciliana dal 1777 al 1780, Deputato del Regno per ben cinque volte, Gentiluomo di Camera del Re Ferdinando IV e, a partire dal 1781, Cavaliere di San Gennaro e della Gran Croce di Constantino.

Nel 1761 aveva sposato Agata Branciforti, figlia di Èrcole, potentissimo principe di Scordia e, nel 1793, divenuto vedovo, Giovanna del Bosco, figlia di Vincenzo, Principe di Belvedere, e dama della regina Maria Carolina.

Un matrimonio strumentale quest’ultimo, dopo ventiquattro anni di vedovanza, che gli consentiva di consolidare la sua posizione a Palermo e a Napoli e di risolvere le due grandi questioni giudiziarie che incombevano sul futuro del patrimonio Moncada: la causa contro i Ferrandina e la contesa coi demanialisti di Paternò e di Caltanissetta.

Seppur costellata di successi, la lunga vita del Principe, attore perfino dei moti palermitani del 1812 e del 1820, appare a tratti difficile e travagliata, per le molte delicate questioni che questi si trovò a dover risolvere nel corso degli anni. La demenza del padre in primis, contro cui più volte era stato intentato un procedimento di interdizione per incapacità; il contenzioso col figlio Francesco Rodorico che, sfidando le pretese della matrigna, si batteva per la salvaguardia del fidecommesso sui beni di casa Moncada; il rapimento da parte dei corsari barbareschi, che aveva quasi acceso un incidente diplomatico; le accuse di complicità con Napoli durante i moti del 1820.

Vicende scomode queste ultime nel rilevante quadro dell’epopea Moncada, che però vanno citate ad onor del vero, per quel che in fondo esse dimostrano: una storia di successo, per quanto eccezionale, non è mai esemplare, nè del tutto lineare; e sebbene nel suo svolgimento prevalgano i momenti di grande prestigio e le gesta di personaggi straordinari, non mancano mai le cadute e i periodi di crisi, che la rendono quanto mai reale.


Bibliografia essenziale

  • GIARRIZZO G., Alla corte dei Moncada (secoli XVIXVII), in "Annali di storia moderna e contemporanea", 1999, pp. 429-43.
  • LAUDANI S., Lo stato del principe. I Moncada e i loro territori, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2008.
  • PALAZZOLO GRAVINA V., Il blasone in Sicilia, Bologna, Forni Editore, 1972.
  • SCALISI L. (a cura di), La Sicilia dei Moncada. Le corti, l’arte e la cultura nei secoli XVI-XVII, Domenico Sanfilippo Editore, 2006.