Incisori e incisioni

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97.a.6-Libro2 muscoliMolto dibattuta è la questione relativa agli artisti impiegati per i disegni preparatori delle illustrazioni, in particolare per le bellissime xilografie a figura intera del corpo umano, per il frontespizio della Fabrica e per il ritratto di Vesalio, che compare sia dopo l’epistola all’editore, sia alla fine dell’Epitome.

Per tre delle sei Tabulae anatomicae (le altre le aveva disegnate lui stesso) Vesalio si era “servito” del pittore fiammingo Jan Stephan van Calcar, allora a Venezia a studiare presso Tiziano: il suo nome è espressamente menzionato (anche come finanziatore) nell’iscrizione che figura in una delle illustrazioni del libro. Inoltre, in una lettera del 1539 l’anatomista scriveva di avere in preparazione un’opera di ampio respiro (la Fabrica appunto) e di augurarsi, oltre che di avere cadaveri a disposizione, di potersi ancora avvalere della collaborazione dello stesso artista. Di qui deriva l’attribuzione a Calcar anche delle tavole della Fabrica e dell’Epitome, sostenuta per primo da Giorgio Vasari, che aveva conosciuto di persona il pittore fiammingo, e ancor oggi mantenuta da alcuni. Una tradizione parallela, risalente ad Annibal Caro, è invece spostata sul nome di Tiziano.

Le differenze qualitative e stilistiche, solo in parte dipendenti dagli intagliatori, depongono a favore di un lavoro a più mani, naturalmente sempre in stretta collaborazione con lo scienziato, responsabile non solo dell’esattezza e della precisione nella descrizione grafica delle parti anatomiche, ma anche del significato e del valore simbolico delle immagini in rapporto alla filosofia del testo.

D’altra parte è difficile pensare che il lavoro di preparazione delle numerose tavole illustrative sia stato affidato ad un unico artefice; inoltre, in quel momento a Padova erano presenti artisti ben accreditati anche nel campo dell’illustrazione libraria, come Domenico Campagnola, o l’olandese Lambert Sustris. A Campagnola è infatti attribuibile il complesso e monumentale frontespizio della Fabrica, raffigurante una pubblica lezione di anatomia, ambientata all’aperto, com’era d’uso all’epoca, in un cortile che certamente allude a quello dell’università patavina per la presenza dei bucrani sulla trabeazione. Le numerosissime figure di colleghi, assistenti e studenti, che si affollano attorno al professore intento a dissezionare il cadavere di una donna, rivelano tutte, per tipologia e forma, la mano dell’artista padovano; senza dire di alcune “trovate”, come quella dell’uomo che si sporge da una colonna, reperibili in altri suoi disegni. A Domenico sono state giustamente riconosciute anche le decorazioni delle iniziali, con scenette gustose e bizzarre relative alla pratica medica.

Meno certa appare, invece, l’attribuzione alla sua mano del ritratto di Vesalio sia per le divergenze con la testa del medico disegnata da Campagnola al centro del frontespizio, sia, più in generale, per la sproporzione del corpo e il maldestro disegno degli arti. Le modalità espressive – la rotazione della testa e l’acutezza dello sguardo – potrebbero far pensare a un pittore come Stefano dell’Arzere, che aveva già lasciato in città alcune prove di notevole capacità ritrattistica.

Straordinari gli scheletri del libro primo, visti di fronte e da dietro in atteggiamenti diversi, con il loro ‘carico’ di significati allusivi alla morte, alla caducità della vita,  e le quattordici figure di scorticati del libro secondo, dedicato ai muscoli dell’uomo.

Come si vede nella pagina qui presentata, la figura umana è priva di pelle, con i fasci muscolari che man mano si staccano dal corpo per rappresentare graficamente le varie fasi di un dissezionamento completo. Le figure, còlte in pose naturali e insieme retoriche nell’esplicita evocazione della statuaria antica, si muovono, in una sorta di danza macabra, sul fondo di aperti paesaggi campestri e fluviali con rovine antiche e monumenti funerari, che metaforicamente alludono alla decadenza fisica dell’uomo e al luogo del suo ultimo riposo.

Per alcune delle invenzioni paesaggistiche che fanno da sfondo alle illustrazioni degli scorticati, è stato fatto opportunamente il nome di Lambert Sustris che in quegli anni, nell’Odeo Cornaro e nella Villa dei Vescovi a Luvigliano, mostra di saper fondere il tipo di paesaggio archeologico di ascendenza romana con quello tizianesco e campagnolesco; mentre, per le figure degli ‘scorticati’, pare oggi più appropriata la proposta di vedervi la mano di Stefano dell’Arzere; in particolare è riconducibile ai modi di Stefano la tendenza a risolvere la resa plastica e chiaroscurale in un incisivo e asciutto linearismo e l’idea di impostare le figure contro il cielo, sull’orizzonte tenuto basso in modo da portarle sul primo piano accentuando la valenza decorativa del disegno di contorno e delle pose. Indubbia è la relazione con l’esperienza fatta, da questo e dagli altri pittori padovani, nella Sala dei Giganti a Padova (1540-1541).

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