L'alfabeto dell'artefice (sez.4)

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Il trattatista più prolifico e sperimentale del Cinquecento fu il bolognese Sebastiano Serlio, assai più noto per la sua attività teorica che per la sua produzione architettonica, quantitativamente assai limitata. Il primo dei libri serliani a essere stampato, nel 1537, è quello delle Regole, noto anche come Libro quarto, nel quale sono trattati i cinque ordini architettonici ed è annunciato il piano dell’intera opera. Oltre a Vitruvio e agli esempi antichi, Serlio determina la morfologia degli ordini sulla scorta delle esperienze dell’architettura romana moderna, in primo luogo quella di Bramante e Raffaello, mettendo a punto un codice più ricco di quello di Vitruvio e più corretto di quello di Cesariano, ma non ancora così puntiglioso come il successivo di Vignola, destinato in ogni caso insieme a quest’ultimo ad affermarsi e durare per secoli anche grazie all’efficacia del corredo iconografico. È indicativo che Serlio cominci a segnare già in questa sua prima opera teorica, e fin dalla dichiarazione del frontespizio, una qualche distanza dall’integrale adesione a Vitruvio, distanza che culminerà negli esiti inattesi e “eversivi” dell’Extraordinario libro, pubblicato in Francia nel 1551.

Se nel Quarto libro Serlio lascia spazio alla temperata discrezionalità del progettista, al suo giudizio, il Terzo libro ha un’impostazione decisamente prescrittiva, anche a causa del tema che vi è sviluppato, quello dell’architettura antica. Uscito a Venezia nel 1540, con uno stupendo frontespizio “rovinistico”, il richiamo all’ortodossia vitruviana vi torna prepotente e, in suo nome, l’autore non risparmia di rilevare polemicamente gli “errori” degli “architetti licenziosi”. Il libro infatti non si limita a riprodurre i disegni “della maggior parte degli edificii [antichi] che sono a Roma, in Italia e fuori, diligentemente misurati”, ma prende in considerazione anche i moderni palazzi e chiese della Roma rinascimentale. Nel proprio lavoro Serlio fa uso dei rilievi (poi venduti all’antiquario Jacopo Strada), appartenuti al suo maestro Baldassarre Peruzzi che li aveva disegnati per un’opera sulle antichità romane mai pubblicata. La trattazione non si limita a Roma ma si allarga ad altri centri ricchi di testimonianze archeologiche, come Ancona, Benevento, Spello, Verona, Pola e termina con una capitolo sui monumenti egizi.

Seguitando la sua impresa editoriale, l’architetto dà alle stampe nel 1545, a Parigi, dove viene chiamato da Francesco I per lavorare a Fontainebleau, il Primo libro d’architettura e il Secondo libro di perspettiva, in italiano e in francese, entrambi destinati, al pari degli altri, a un grande successo editoriale. Nel Primo libro Serlio tratta della geometria, partendo dalla definizione euclidea di punto, linea, superficie, per passare poi a vari specifici problemi, per i quali chiama in causa più di una volta Dürer.

Nel Secondo libro il tema è quello tradizionale della prospettiva, così fondamentale per tutto il Rinascimento. L’impostazione al solito è molto didattica ed empirica: l’architetto, a dispetto delle intuibili critiche degli esperti, che mette in conto, si propone di spiegare le regole prospettiche nel modo più semplice. Nel breve scritto a chiusura del libro (il Trattato sopra le scene) Serlio affronta l’importante tema del teatro, illustrando, anche sulla base di precedenti esperienze altrui (soprattutto di Peruzzi) e proprie (aveva allestito un teatro di legno a Vicenza), la scena prospettica moderna, nelle tre tipologie: comica, tragica e satirica.

Sempre a Parigi, e sempre in italiano e in francese, esce nel 1547 il Quinto libro, che si occupa delle “diverse forme di Tempij Sacri secondo il costume Christiano, et al modo Antico”. La dedica a Margherita di Navarra, sorella di Francesco I, donna dalle idee religiose non conformiste, e affermazioni come quella d’esordio nella quale Serlio dichiara che “i veri templij sono gli cuori de i pietosi Christiani, dentro de quali abita per fede Giesu Cristo Salvator nostro”, o quella finale “altre cose mi aspettano, forsi di più comodo e contentezza alla maggior parte de gli uomini”, hanno fatto sospettare possibili simpatie dell’architetto per il mondo dell’evangelismo. Il libro, in ogni caso, non è la sua opera più felice: vi sono brevemente descritte dodici tipologie chiesastiche, con netta prevalenza di quelle centriche (nove).

Nel 1551 a Lione viene pubblicato, in francese e italiano, l’Extraordinario libro, dedicato a Enrico II. Sempre oscillante tra i richiami all’ordine vitruviani e l’intima propensione sperimentale e antidogmatica, l’architetto qui si sbilancia decisamente a favore della seconda, dando vita a un’opera sorprendente e quasi temeraria, destinata a incontrare le resistenze e la condanna del classicismo ortodosso di fine secolo, specificamente di Vincenzo Scamozzi. Vi si tratta di un tema in realtà marginale, le porte, per le quali Serlio, con piena coscienza, deliberatamente propone un catalogo di cinquanta tipi (trenta di stile rustico, venti di stile “delicato”) che egli stesso definisce “licenze”, e di cui chiede venia agli “architetti fondati sopra la dottrina di Vitruvio”, giustificandosi con l’esigenza di assecondare il gusto francese (“Habbiatemi per iscusato di tanti ornamenti, di tante tabelle, di tanti cartocci, volute & di tanti superflui; e habbiate riguardo al paese dove io sono”, dichiara l’architetto), ma che, ispirati a una fantasia sbrigliata e capricciosa, ben esprimono, in fondo, le inquietudini anti-normative di molta parte della moderna sensibilità manieristica.

Il Sesto libro, previsto nell’iniziale programma del 1537, avrebbe dovuto essere dedicato all’architettura domestica (“da la più vil casipola, o capannetta che vogliamo dirla […] fino al più ornato palazzo di Prencipe, così per la villa come per la città”), ma ebbe un iter travagliato, con tre diverse redazioni scalate fra il 1541 e il 1553, nessuna delle quali vide la stampa. Il Settimo libro, e ultimo, esce postumo a Francoforte nel 1575 per iniziativa e con rimaneggiamenti dell’architetto e antiquario mantovano Jacopo Strada, a lungo attivo in Germania al servizio dei banchieri Fugger e delle case d’Asburgo e di Baviera.

Come dichiara nell’Avviso alli lettori, Strada aveva acquistato il manoscritto e “le tavole disegnate” del Settimo libro da Serlio a Lione nel 1550 (ma in realtà li ebbe dopo il 1552) e ora li pubblicava con testo italiano e latino. Vi si esaminano i “molti accidenti, che possono occorer’ al Architetto”, con osservazioni sul “ristorar case vecchie”, cioè in prevalenza edifici gotici, da sottoporre a “riformatione” secondo i principi classici di regolarità e simmetria; in altre parti del libro Serlio parla delle proprie personali esperienze nel cantiere di Fontainebleau, o descrive ville e palazzi, come la casa di Alvise Cornaro a Padova, pubblicando una pianta abbastanza fedele dell’Odeo e meno aderenti disegni di alzato e sezione. Nel 1584, a Venezia, era data alle stampe un’edizione di Tutte l’opere d’architettura curata da Gian Domenico Scamozzi con un ricchissimo indice redatto dal figlio Vincenzo.

Jacopo Strada, nel Settimo libro, riferisce di aver acquistato da Serlio anche il manoscritto e le tavole di quello che lui chiama impropriamente Ottavo libro, riguardante la Castramentatio, vale a dire la ricostruzione dell’accampamento romano secondo le indicazioni di Polibio, ma l’opera non fu mai stampata. I libri di Serlio, editi e riediti a Venezia, Lione, Parigi, Anversa, Basilea, Toledo, Francoforte, favorirono l’affermazione di un nuovo tipo di editoria trattatistica basata molto sulle immagini, e contribuirono enormemente a diffondere i principi e il gusto dell’ architettura rinascimentale in Europa.

Fortuna  e influsso straordinari, più  di  ogni altro scritto d’architettura del Cinquecento, ebbe la Regola delli cinque ordini dell’architettura di Jacopo Barozzi detto il Vignola dal luogo di nascita, pubblicata a Roma nel 1562. Più impegnato di Serlio nella diretta attività progettuale, al Vignola si devono importanti edifici a Bologna (Portico dei Banchi), Roma (villa Giulia, chiese di Sant’Andrea sulla via Flaminia, Sant’Anna dei Palafrenieri, del Gesù, destinata a diventare il modello delle chiese della controriforma), Piacenza e Caprarola (palazzo Farnese). Vignola enuncia il suo intento nella prefazione: si tratta di ridurre “sotto una breve regola facile, et spedita da potersene valere li cinque ordini di architettura […] cavandogli puramente dagli antichi tutti insieme, ne vi mescolando cosa di mio se non la distribuzione delle proporzioni fondata in numeri semplici senza havere a fare con braccia, ne piedi, ne palmi di qual si voglia luogo, ma solo ad una misura arbitraria detta modulo”. Vignola non ha l’ambizione di scrivere un trattato complesso come quello serliano o albertiano, ma di fornire uno strumento agile e di pronto utilizzo, quasi un semplice abaco.

Perciò, come e più che in Serlio e Labacco, nella Regola le immagini, di didascalica essenzialità, realizzate su una matrice di rame e accompagnate dalle misure modulari, assumono un ruolo assolutamente centrale e decisivo, poiché, per usare ancora le parole dell’autore, si potrà “in un’occhiata sola senza gran fastidio di leggere comprendere il tutto e opportunamente servirsene”. I fogli della Regola spesso venivano  rilegati insieme con il libro di Labacco, del quale la Regola vignolesca costituiva quasi il naturale completamento, corrispondendo come argomenti l’uno al III Libro del Serlio, l’altra al IV. Il testo, per la sua semplicità e didascalica efficacia, si affermerà subito come pratico manuale didattico, consultato in scuole e accademie fin dentro l’Ottocento.

[continua sotto la Galleria]

[prosegue, vd. sopra la Galleria]

Nel 1570, otto anni dopo la pubblicazione della Regola di Vignola, uscivano a Venezia i Quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio, votati anch’essi a una enorme notorietà e diffusione, forse meno capillare di quella di Vignola, ma in ogni caso di incalcolabile portata, specialmente nell’Inghilterra dei secoli XVII e XVIII, dove, sui Quattro libri, si fondò per impulso specialmente di Inigo Jones, l’esperienza importante del palladianesimo, destinata ad avere ripercussioni amplissime anche in America. Nel Proemio del trattato, appellandosi a Vitruvio e Alberti, Palladio intende proporsi implicitamente come erede dei due fondatori della trattatistica architettonica, rispettivamente antica e moderna, ma anche come colui che li supera, forse raccogliendo in ciò un suggerimento del suo primo importante mecenate e protettore, il nobile letterato e umanista vicentino Giangiorgio Trissino, il quale, dei due grandi teorici, pur ammiratissimi, aveva lamentato i difetti: incompletezza nel primo, prolissità nel secondo. I Quattro libri -ma Palladio ne aveva previsti altri, mai pubblicati-  si presentano come un trattato agile e accessibile a un pubblico vasto, anche in virtù di un ricco apparato illustrativo (qui ricavato dall'edizione del 1642 le cui xilografie sono tratte dalle stesse matrici della princeps).

Preceduti dall’impresa editoriale de L’antichità di Roma e della Descritione delle chiese (1554) e seguiti dai Commentari di C. Giulio Cesare (1574), i Quattro libri imprimeranno il definitivo suggello della dignità intellettuale alla straordinaria parabola del tagliapietra padovano Andrea di Pietro della Gondola, divenuto, col nome di Palladio, uno dei più celebrati architetti di ogni tempo. Il nome Palladio, di classica risonanza, gli era stato attribuito da Trissino, ed è in questo ambiente, intriso di sconfinata ammirazione per il mondo classico, che egli matura i propri ideali estetici. Tuttavia a dispetto dell’omaggio di prammatica al verbo vitruviano, egli in realtà vi si mostra sempre meno ossequiente, elaborando una lingua architettonica originale, tradotta in una lunga serie di capolavori, la cui conoscenza sarà divulgata proprio dal trattato. Ed è questo l’aspetto più rilevante e in parte nuovo dei Quattro libri.

I vari edifici urbani e le ville realizzate nella campagna vi compaiono con pianta e compagnati da una breve descrizione: un pratico repertorio di tipi ed esempi, più che una registrazione scrupolosa di articolati progetti e realizzazioni. Nella dedica al conte vicentino Giacomo Angarano, Palladio dichiara di voler “scriver gli avvertimenti necessarij, che si devono osservare da tutti i belli ingegni, che sono desiderosi di edificar bene, e leggiadramente, et oltra di ciò di mostar in disegno molte di quelle fabriche che da me sono state in diversi luoghi ordinate, e tutti quelli antichi edifici c’ho finora veduti”: il trattato si rivolge dunque a un pubblico non solo di architetti, ma anche, e prima, di intenditori e committenti. A questo proposito Palladio ricorda come, a Vicenza, “molti gentil’ huomini vi sono stati studiosissimi di quest’arte [architettura]” e li elenca con deferenza, essendo stati pressoché tutti suoi clienti.

Nel Proemio al primo libro Palladio prefigura un programma più compiuto di quello poi effettivamente dato alle stampe: vi avrebbero dovuto figurare anche teatri, anfiteatri, archi, terme, acquedotti, fortificazioni, che invece non videro mai la pubblicazione. Il Primo libro considera i materiali, le tecniche costruttive connesse alle varie parti dell’edificio (muri, pavimenti, soffitti, porte, finestre, scale, coperti), e naturalmente i cinque ordini.

Il Secondo libro tratta delle case dentro e fuori la città e “delle case antiche de’ Greci e de’ Latini”. Palladio dà ampio spazio ai propri progetti urbani e di villa: vi troviamo illustrati i palazzi di Udine, Verona, Vicenza e Venezia, nonché le molte ville sparse nel Veneto (in mostra si è ritenuto di esporre le pagine raffiguranti due ville, quella Pisani di Montagnana e la celebre villa Almerico, o Rotonda, di Vicenza, vd. nella Galleria). Il Terzo libro ha per tema le strade, i ponti (in mostra il progetto mai realizzato per Rialto), le piazze, le basiliche, le palestre. Qui Palladio ha modo di illustrare il ponte ligneo di Bassano e la famosa Basilica di Vicenza, alla quale dedica due splendide tavole.

Nel Quarto libro, infine, “si descrivono e si figurano i Tempij Antichi, che sono in Roma, et alcuni altri, che sono in Italia, e fuori d’Italia”, e qui, l’architetto mette a frutto le competenze archeologiche acquisite con gli studi e i molti viaggi a Roma e altrove. Le bellissime incisioni xilografiche che accompagnano tutto il trattato, disegnate dallo stesso maestro con straordinaria finezza, nel Quarto libro si fanno più numerose, con grande abbondanza di immagini a tutta pagina.

LIdea della architettura universale del vicentino Vincenzo Scamozzi, pubblicata a Venezia nel 1615, è di solito considerata l’epilogo della  trattatistica architettonica del Rinascimento. Anche come architetto Scamozzi è l’erede della tradizione cinquecentesca, quella veneta, da Sansovino a Palladio ma in gioventù era stato a lungo a Roma e Napoli. Per preparare il suo trattato sull’architettura universale, viaggerà poi in vari paesi, Germania, Ungheria, Francia, registrando nel suo taccuino di disegni, con franca curiosità, anche le architetture gotiche, bandite senza appello dal suo orizzonte estetico, integralmente classicista.

Figlio di un architetto, Scamozzi ha una formazione accademica, fin dall’inizio saldamente e anzi quasi dogmaticamente ancorata ai principi teorici, in polemica più o meno scoperta con il lascito di Palladio, fatto sì di teoria ma anche profondamente innervato di esperienza pratica: “all’arte – scrive Scamozzi nell’Idea  conviene più il sapere e il conoscere le ragioni delle cose, che all’esperienza: essendo che l’arte ha cognitione universale, e l’esperienza solo degli accidenti particolari. Laonde noi reputiamo più dotti, e sapienti gli architetti che possiedono questa facoltà con quei termini che ricerca l’arte, che quelli che tengono solo per via dell’esperienza; e tanto maggiore quanto i primi acquistano le cose per via delle scientie, essendo che allora dagli universali vengono in cognizione de’ particolari delle cose: onde sanno le cause che sono termini scientifici”. “Senza dubbio ritrovaremo –dichiara ancora Scamozzi– che l’Architettura non solo sarà Scientia […] ma fra le Scientie verrà a esser degnissima  e meritissima d’ogni lode; posciache […] ella è sublime nella speculatione; indubitata nelle dimostrationi; nobilissima per il soggetto che tratta; eccellentissima per il metodo ch’ella tiene nel dimostrare, necessarissima al viver Politico e civile”.

Tuttavia Scamozzi è assai attento all’organizzazione del cantiere e al ruolo delle varie maestranze, riservando però all’architetto una posizione di intellettuale aristocratica superiorità. Nel 1584 insieme al padre cura la prima edizione completa dei libri di Serlio; due anni prima aveva dato ampia prova della propria cultura antiquaria e delle proprie ambizioni letterarie, pubblicando i Discorsi sopra l’antichità di Roma. Possedeva una ricca biblioteca (suo fu anche un manoscritto originale del trattato di Francesco di Giorgio), ben fornita di libri di architettura e di antichità: uno di questi, la Urbis Romae topographia di Bartolomeo Marliani, nell’edizione del 1588, in ottavo, è esposto in mostra, appartenendo oggi alla Biblioteca Universitaria di Padova.

L’Idea della architettura universale, progetto ambizioso, a lungo accarezzato, fu pubblicata dall’autore solo l’anno prima della morte. Era prevista in dodici libri, poi ridotti a dieci sul modello di Vitruvio e Alberti, ma ne uscirono soltanto sei (in due volumi: I-III, VI-VIII), ciascuno di trenta prolissi capitoli, con un “indice copiosissimo delle materie”. È indicativo della mentalità scamozziana il continuo rimando a definizioni e prescrizioni: un’impostazione quasi da trattato morale e filosofico. Naturalmente Scamozzi non trascura gli aspetti più direttamente inerenti la professione, con uno sguardo sempre molto ampio, rivolto non solo all’Italia, ma, sulla scorta delle sue esperienze di viaggio, anche all’urbanistica e all’edilizia di vari paesi europei; nella Galleria, tratta dal libro secondo, villa Molin alla Mandria presso Padova, da lui realizzata al chiudersi del secolo.  

Una quindicina d’anni dopo la pubblicazione dell’Idea di Scamozzi, veniva dato alle stampe Della architettura (1629) del padovano Giuseppe Viola Zanini, architetto poco noto e apparentemente poco operoso, forse perché in realtà impiegato in ruoli subalterni. Il trattato, in due libri (un terzo, sugli edifici pubblici, era previsto ma non fu mai scritto), si stacca dalla tradizione delle grandi summe in sette o dieci libri, alla maniera di Alberti o Serlio. Stando a quanto l’autore stesso dichiara, il Della architettura, nato come sorta di personale raccolta manoscritta di regole e procedimenti, sarebbe stato stampato per insistenza degli amici, che non si accontentavano di averlo in prestito.

Naturalmente Viola Zanini deriva varie delle sue osservazioni dalla precedente trattatistica, da Vitruvio, a Vignola, a Palladio, con una spiccata tendenza però a privilegiare gli aspetti più immediatamente pratici del mestiere, sin dalle prime pagine sulla geometria e sulla prospettiva, applicata alla pittura di scorcio in soffitti e volte. Questo pragmatismo è l’aspetto più interessante dell’opera, che offre un ricco repertorio di informazioni su materiali e tecniche: dai vari tipi di pietra (quasi esclusivamente di cave locali o venete) ai mattoni, malte (fra cui la ricetta per i marmorini), metalli, legname. Le illustrazioni, essenziali e accompagnate per lo più dalle misure, concorrono ulteriormente a connotare in senso tecnico-pratico il volume. Le tavole proposte sono tratte dal libro II e raffigurano l’ordine toscano associato agli archi di opera rustica mentre della riedizione del 1677 si presentano alcune belle tavole dedicate all’illustrazione della costruzione grafica di una prospettiva architettonica ideata per un soffitto, cioè all’invenzione di una ardita quadratura da osservare dal sotto in su.     

 

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