I trattati di architettura (sez.4)

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Quali sono le nozioni basilari da cui un architetto -per dirsi tale- non può prescindere? Cosa deve saper riconoscere e riprodurre? Cosa deve saper costruire e come lo deve fare? Quali sono gli antichi modelli da cui attingere ispirazione? Quando e perché rinnovare e fin dove lasciare spazio alla creatività? Ben presto gli architetti comprendono di dover diventare anche teorici oltre che esecutori a cominciare da Leon Battista Alberti.

Il De re aedificatoria è l’ultima in ordine di tempo delle sue grandi opere: Matteo Palmieri afferma che il trattato fu presentato a papa Niccolò V nel 1452, ma con ogni probabilità Alberti v’intervenne anche successivamente. È un lavoro della piena maturità, composto quando l’autore era ormai prossimo alla cinquantina.

Il trattato albertiano risponde a uno spirito nuovo, non vuole essere un manuale tecnico (Alberti aveva escluso illustrazioni a corredo del testo), né, d’altra parte, intende rivolgersi ai professionisti, ma al pubblico dei committenti colti (non a caso è scritto in latino), per consigliarli e indirizzarli nelle scelte: lo sforzo è di dare dignità letteraria e di pensiero a una materia, l’architettura, ritenuta “commodissima” al viver pubblico e al privato, “agli huomini oltre modo gioconda” e “non ultima per dignità”, come recita il Prologo. Sarà tuttavia appannaggio esclusivo dell’architetto la definizione progettuale dell’opera, intesa dunque come sua integrale creazione: “cosa che sta nelle sue mani, egli ne può liberamente e a voglia sua molto bene disporre”.

Sebbene Alberti si ispiri a Vitruvio, l’opera non è né un’edizione né un commento a Vitruvio. La conoscenza dell’architettura antica dispiegata nel De re aedificatoria non si fonda solo su fonti scritte, ma è frutto di ricerche archeologiche condotte dallo stesso Alberti, che già aveva realizzato la Descriptio urbis Romae. L’interesse per l’antico vi è  pari a quello per il moderno. Questa stretta connessione fra antico e moderno è un dato che accompagnerà tutta la successiva trattatistica architettonica, da Serlio a Vignola a Palladio a Scamozzi e oltre, anche se con esiti molto diversi, ora più normativi ora più sperimentali. L’antico offre la misura, la giusta proporzione, sta ai moderni tradurla e attualizzarla: la bellezza (venustas) è “un concerto di tutte le parti accomodate insieme con proporzione e discorso […] di maniera che e’ non vi si possa aggiugnere o diminuire, o mutare cosa alcuna, che non vi stesse peggio”. Firmitas (solidità), utilitas (funzionalità) e venustas (bellezza) sono i concetti attorno ai quali si organizza la materia del trattato albertiano.

La sua fortuna non fu rapidissima. Circolò manoscritto fino alla pubblicazione, promossa da Bernardo Alberti, cugino di Leon Battista, nel 1485, oltre dieci anni dopo la morte dell’autore. La sua notorietà si diffuse soprattutto nel Cinquecento, in un clima ormai assuefatto al verbo classicista, quando già il suo ruolo era diventato meno centrale: in ogni caso, sarà il modello albertiano a dare il tono alla successiva pubblicistica architettonica, e a consacrare la fama del suo autore, celebrato dai trattatisti di ogni tempo, che ne affiancheranno il nome a quello di Vitruvio.

In mostra compaiono di questo famoso trattato la seconda edizione del 1512 stampata a Parigi ed ancora in lingua latina, la terza del 1541 stampata a Strasburgo e la prima traduzione in italiano del 1546 stampata a Venezia, a conferma di un interesse che va sempre più, oltre il mondo degli studiosi latine perìti.

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